Mentre i Paesi baltici blindano ospedali, procedono al riarmo e riforniscono bunker, noi italiani — come sempre — ci affidiamo a Sant’Antonio, alla NATO e alla geografia. E se la frontiera trema, noi stiamo a guardare.
Da Vilnius a Tallinn, passando per Varsavia, i governi dell’Europa orientale parlano ormai senza giri di parole: la guerra non è più una possibilità remota, ma un rischio concreto. Basta un drone che sbaglia rotta, un confine attraversato per sbaglio e improvvisamente un trauma center diventa una sala operatoria da trincea.
In Lituania le scuole simulano esplosioni, in Estonia i paramedici hanno giubbotti antiproiettile, in Polonia i ministri parlano di strategia sanitaria di guerra come se fosse il meteo del fine settimana. Gli ospedali scavano bunker sotto le fondamenta. Preparano scorte di morfina, plasma, ossigeno. In alcuni casi si progettano reti internet indipendenti, nel caso in cui un missile spenga tutto.
Noi, invece, leggiamo di queste cose tra un cornetto e un talk show politico, poi cambiamo canale.
Riarmo: frontiere calde, confini tiepidi
Chi ha vissuto l’occupazione sovietica — baltici, polacchi, rumeni — conosce il prezzo del silenzio. E oggi, col ricordo dell’Ucraina che resiste da tre anni all’invasione, non si fida di un cessate il fuoco firmato a Mosca.
Secondo Eurobarometro, i Paesi più convinti a spendere di più per armi e difesa sono proprio quelli dell’Est. In cima: Polonia, Lituania, Estonia, Finlandia. Nella media: Francia, Germania, Svezia. In fondo alla classifica: Italia. Qui la spesa militare resta sotto la soglia del 2% del PIL (obiettivo NATO), e i sondaggi mostrano che la maggioranza preferirebbe investire in pensioni piuttosto che in missili.
Del resto, noi la Russia la vediamo col binocolo: la frontiera con l’Est la fa la Slovenia — un tappo di Alpi e di trattati. Se esplodesse davvero qualcosa, ci penserebbero polacchi e tedeschi a fermare l’onda. E se non bastasse, c’è sempre l’ombrello americano. O almeno, finché dura.
Riarmo, mentre gli altri costruiscono rifugi noi stiamo a guardare
A Vilnius, Vilniaus Santaros Klinikos — l’ospedale universitario principale — sta costruendo elisuperfici, rifugi sotterranei e sale operatorie bunkerizzate. Hanno generatori per reggere settimane senza corrente, scorte di antibiotici e sangue per operare centinaia di feriti. I paramedici fanno esercitazioni con l’esercito per amputazioni multiple, ustioni da esplosione, traumi da scheggia.
In Estonia si testano kit mobili da campo, per trasformare un parcheggio in un ospedale militare in poche ore. In Lettonia i medici sono addestrati a passare da patologie croniche a ferite di guerra in 24 ore. In Polonia hanno istituito un piano nazionale di logistica per portare letti di terapia intensiva vicino al fronte, in caso di massicci evacuati dall’Ucraina o dai Paesi baltici.
In Italia, nel frattempo, il dibattito resta sul MES, sul Superbonus, o su chi ha pagato di più i gelati in vacanza.
No al riarmo: la filosofia dell’alibi geografico
C’è una parte di verità: la Russia non bussa ai nostri confini dal 1945. Ci sentiamo lontani, protetti da Alpi, trattati e alleati. A Roma nessuno propone esercitazioni di evacuazione per ospedali pediatrici o scorte di plasma per mass casualty. Ci limitiamo a mandare qualche tonnellata di munizioni a Kyiv, più per diplomazia che per convinzione.
E se la storia bussasse di nuovo? Ci troverebbe poco pronti, come sempre. Ma non lo diremo mai ad alta voce. Perché a noi italiani piace raccontarci di essere al centro del Mediterraneo, di avere la portaerei naturale più bella del mondo. Poi, di fatto, confidiamo che qualcun altro — gli americani, la NATO, o chi per loro — venga a spegnere l’incendio quando le fiamme arrivano davvero.
Un riarmo, un brindisi e un’occhiata alla frontiera
E così continuiamo: la frontiera si prepara, noi un po’ meno. Da Vilnius a Varsavia si blindano bunker. Da Bolzano a Ragusa, si ordina un altro caffè.
Tanto la Russia, in fondo, non è poi così vicina.