Il Consiglio di Amministrazione di CSI oggi ha aperto le buste per la privatizzazione del colosso piemontese dell’Informatica, 100% a capitale pubblico. 3 gruppi Italiani di livello internazionale interessati a rilevare la società. RSU sul piede di guerra, preoccupate per i 1100 dipendenti. Il neo Sindaco di Torino Chiara Appendino contraria alla cessione.

I conti non tornano, così CSI, il consorzio piemontese di ICT e Informatica, che dà lavoro a 1100 persone, sta per essere venduto ai privati. Sono 3 i candidati. Il gruppo Engineering, quello guidato da Dedalus e quello “parapubblico” guidato da altre realtà dell’ICT pubblico piemontese e capitanato da Ericsson (sotto approfondiamo)

E quindi? Cosa succederà al mercato piemontese dell’ICT? Una privatizzazione (e la conseguente liberalizzazione) aprirebbe il mercato, consentendo a tante aziende medio piccole di fornire servizi ai comuni e alle aziende Sanitarie (principali clienti di CSI) attraverso il MEPA, il mercato unico della pubblica amministrazione, in trasparenza e al miglior prezzo, facendo risparmiare soldi alla pubblica amministrazione. Questa almeno è la narrazione di chi tiene alla privatizzazione, visto che in città sono molti a dubitare dell’efficienza di una macchina tanto grande e complessa (a torto o a ragione).

Un’efficienza che però non è messa in dubbio da Riccardo Rossotto, Avvocato e Giornalista, presidente di CSI da inizio 2015 e a cui è stato affidato il compito di valorizzare gli attivi attraverso una procedura, visti i problemi finanziari dell’Ente (è il caso di chiamarlo così).

riccardo rossotto

Riccardo Rossotto, Presidente di CSI Piemonte

Il problema, spiega Rossotto, è che una struttura del genere ha dei costi. Noi, per la nostra natura di società pubblica, possiamo solo ricevere affidamenti dai nostri soci, quindi non possiamo proporci sul mercato. Il problema è che i nostri soci continuano ad affidarci sempre meno attività e i conti non tornano più.

Ma… a Torino è cambiato il Sindaco.

Chiara Appendino

Chiara Appendino, Sindaco di Torino

Ecco un’altra grana per la neo Sindaca Chiara Appendino, che in campagna elettorale ha dichiarato che il CSI deve restare pubblico, per tutelare le aziende dell’indotto.

Sono a disposizione per un confronto a Chiara Appendino, ma le stesse cose che dico adesso – spiega Riccardo Rossotto – le dirò a lei appena la vedrò. E’ un problema di soldi, che mancano. Non è una questione di rispetto dei ruoli. Il cambiamento democratico ha tutto il mio rispetto istituzionale – spiega Rossotto, forse riferendosi alla prima dichiarazione di Appendino sulla richiesta di dimissioni al presidente della Compagnia di San Paolo Profumo – ma ognuno faccia il suo mestiere.

Ma… come è possibile che i conti non tornino più? E soprattutto cosa fare se mancano i soldi? Li metterebbe la città di Torino?

E’ meglio fare un passo indietro e vedere cosa sta succedendo da un’altra prospettiva.

Cominciamo dall’inizio

Il CSI Piemonte è un consorzio, costituito da Regione Piemonte, Città Metropolitana di Torino e da una miriade di Comuni piemontesi, tutti soci. E’ una società pubblica al 100% e che opera in regime di In House, ovvero di affidamenti diretti senza gara, ma che non può operare sul mercato, ovvero vendere i propri servizi a qualcuno che non ne sia socio. Occupa 1100 dipendenti ed è una delle più grandi società ICT piemontesi, visto che fattura 114 milioni di euro all’anno (fatturato previsto). E’ una regola fondamentale questa, che vale la pena sottolineare perchè implica tutto quello che nei prossimi mesi sta per succedere.

Ma che senso ha una società che si occupa di IT di natura pubblica? Sono in molti infatti a pensare che CSI debba essere privatizzata, perchè ormai la sua funzione di “apripista” nel settore informatico si è ampiamente conclusa. Le prestazioni di CSI, almeno questo sostengono in molti, sono tranquillamente affidabili ai privati (dal sito internet del comune alle più innovative tecnologie di smart cloud o di open innovation). Basta guardare il loro sito (http://www.csipiemonte.it/web/it/#t3-mainnav) per rendersi conto di come somiglino a una (grande) società di IT.

E allora che problema c’è? Se le cose vanno bene si può anche evitare di privatizzare no?

Ma le cose non stanno andando poi così bene.

Nel 2008, CSI aveva un giro d’affari (visto che è una società “in house” chiamarlo fatturato sembra inappropriato) di 180 milioni di euro circa, mentre nel 2016 il fatturato previsto è sceso a 114 (125 nel 2015), mentre i dipendenti da 1200 sono passati a 1100. I soldi mancano, nel senso che molte aziende sanitarie piemontesi non si stanno più rivolgendo in esclusiva a CSI e servono dei soldi in più per “mantenere” i dipendenti. Quindi un problema c’è.

Qui la domanda, che ritorna. Ha senso mantenere una struttura pubblica essendo obbligati a metterci dentro dei soldi per tenerla in piedi? Soprattutto se questa struttura opera in un settore ad elevatissimo grado di innovazione e ha bisogno di investimenti costanti in tecnologie, personale e ricerca?

Sono due (forse 3) le exit strategy da questa situazione che, se dovesse durare, potrebbe diventare esplosiva, soprattutto sotto il profilo occupazionale. L’opzione pubblicista e l’opzione realista. Cominciamo dalla seconda

L’opzione “Realista”.

E’ quella che prevede di prendere atto del contesto di mercato, del settore specifico, del presente ed è quindi l’ipotesi che prevede di privatizzare, magari lasciando una piccola società pubblica (da un centinaio di dipendenti) che si occuperebbe dell’architettura dei sistemi e dell’analisi dei bisogni della pubblica amministrazione, e tutto il resto al mercato. La nuova CSI (privatizzata) si muoverebbe  come una qualsiasi altra azienda sul mercato libero, il mini-CSI invece, da affidatario in house per i soci pubblici.

Questa è l’opzione che ha scelto il consiglio di amministrazione di CSI, su specifico mandato dell’assemblea dei soci, composta come detto dalla Regione Piemonte, dalla Città Metropolitana di Torino e dei rappresentanti dei tanti enti pubblici che costituiscono l’azionariato.

Il risultato è che 14 gruppi e società private hanno manifestato interesse all’acquisto e 3 gruppi privati hanno depositato la loro proposta di piano industriale. Sono state aperte le buste oggi, 21 giugno 2016 e i gruppi interessati sono Engineering, gruppo quotato in borsa, oltre 8mila dipendenti; un raggruppamento di imprese capeggiato da Dedalus – gruppo fiorentino con 14 sedi in Italia e più di 1000 dipendenti; e da un raggruppamento costituito da Ericsson, CSP, CIC e altre.

Sebbene la Regione Piemonte, socio e principale portatore di commesse di CSI, sia d’accordo alla privatizzazione, la Città di Torino non lo era. Fu solo un patto tra Fassino e Chiamparino a dare il via libera all’operazione. Un’operazione che, solo 6 giorni fa, la Appendino (neo sindaco di Torino) ha bocciato con decisione.

L’opzione “Pubblicista”

E’ quella di chi pensa che CSI debba continuare a rimanere pubblica, una società In House che gestisce le reti e i siti internet dei comuni, con tutti i servizi collegati.

La notizia, trapelata nei giorni scorsi e pubblicata da Repubblica, ecco il link, già anticipava alcune considerazioni sul nuovo sindaco di Torino Chiara Appendino, che in campagna elettorale si è già dichiarata contraria alla privatizzazione, in linea con le RSU interne dell’azienda, che sono già sulle barricate perchè preoccupate che la privatizzazione possa cancellare all’istante centinaia di posti di lavoro.

Per percorrere questa ipotesi e consentire alla Sindaca di mantenere una delle sue promesse in campagna elettorale però, c’è bisogno di molti milioni di euro. Milioni di euro che, manco a farlo apposta, non ci sono manco nelle casse del Comune di Torino.

La terza via

Ci sarebbe anche una terza via, ipotizza Riccardo Rossotto, presidente di CSI designato dalla Regione Piemonte e nominato nel gennaio 2015 da Sergio Chiamparino, che è quella di “fondere” tutti i CSI d’Italia (ce n’è uno in ogni regione) per ridurre i costi, razionalizzare il sistema e potenziare l’offerta.

Ma pare che il Presidente del Consiglio Matteo Renzi non ne voglia sentire parlare. Si tratta di una ipotesi di complessa realizzazione e poi, chi terrebbe la sede del CSI Italiano? Chi lascerebbe andare un così interessante bacino di voti e di consensi?

Prima di abbandonare una ipotesi così suggestiva, però, ci sarebbe da pensarci ancora un po’.

Già, perché c’è anche questo aspetto da tenere in considerazione.

Ciò detto, per il momento la road map tracciata è questa. Le offerte arrivate verranno valutate da qui a metà luglio, dal 15/7 a fine settembre si svilupperanno i colloqui con i proponenti delle 3 offerte depositate.

La posta in gioco è soprattutto tener conto del livello occupazionale, visto che la qualità dell’offerta vale 80 punti sui 100 del totale valutativo, mentre solo 20 sono il prezzo) e poi, se nulla osta da parte dell’Assemblea dei Soci di CSI (o se qualcuno tira fuori molti quattrini, visto che ci vogliono 20 milioni soltanto per l’ammodernamento dell’infrastruttura tecnologica) a dicembre/gennaio si aggiudica la gara.

Come sempre, molti saranno contenti (le piccole medie imprese che operano nel settore ICT e che vedranno un mercato sbloccarsi completamente) e altri, probabilmente i dipendenti di CSI, che non passeranno un bel periodo. 

Noi continuiamo a pensare ai posti di lavoro, forse l’economia penserà al resto.

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Gianluca Orrù è scrittore, giornalista, produttore televisivo. Presidente di Tekla Television, fondata nel 2008, è alla quotidiana ricerca di belle storie da raccontare. Si appassiona di qualsiasi cosa abbia un minimo contenuto tecnologico, artistico, enogastronomico. Tifa per il Made in Italy e gli piacciono le cose difficili.

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